La Web Tax è la proposta di legge che punta alla regolamentazione della tassazione delle multinazionali impegnate su Internet, così da evitare che vengano utilizzati benefici fiscali che vanno a non garantire un’equità dei trattamenti e una concorrenza non così leale come dovrebbe essere. Il padre di questa proposta è Francesco Boccia del Partito Democratico.
L’obiettivo della web tax è naturalmente quello di obbligare le grandi aziende che operano sul web, ma che ricavano fior di milioni dalla loro attività sul nostro paese di pagare le imposte indirette anche senza che queste utilizzino la partita IVA della nazione nella quale stanno operando ossia vendendo prodotti oppure erogando servizi.
Come si può leggere nella proposta di legge presentata da Francesco Boccia nel 2013 (AC 1662): “La ratio è quella di contrastare l’evasione fiscale tipica delle transazioni online, intese come commercio elettronico diretto o indiretto che sfuggono al regime di tassazione dei Paesi dove vengono fruiti i beni o i servizi venduti e sui quali si producono ricavi“.
L’obiettivo della web tax è chiaro e limpido: “L’esigenza è quella di non consentire che società estere non paghino le tasse nei Paesi dove operano, ma in quelli dove hanno la sede legale che, molto spesso, hanno un’imposizione fiscale molto più bassa di quella dei Paesi membri dell’Unione europea”.
La proposta era apparsa e poi assorbita all’interno di un emendamento alla Legge di Stabilità 2014 e successivamente era stata approvata all’unanimità in commissione Bilancio con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre 2013 scorso riferimenti comma 33 della legge n.147 del 27 dicembre 2013.
Attesa in vigore dal 1º gennaio 2014, la norma era stata prima rinviata al 1º luglio 2014 all’interno del decreto ‘Salva Roma bis’ e poi cancellata da Matteo Renzi, divenuto all’epoca neo segretario del Partito Democratico in occasione del decreto ‘Salva Roma ter’ del 6 marzo 2014 (n.16).
L’emendamento Boccia è stato in seguito sottoscritto da PD, Ap, FdI, Sinistra Italiana, Mdp, FI, Cor, Possibile. Astenuti la Lega, il Movimento 5 Stelle e Scelta Civica Si è introdotta la cosiddetta Web Tax transitoria a prima firma Francesco Boccia in sede di conversione del decreto legge 50/2017 andando a indirizzarsi verso le imprese che generano 1 miliardo di fatturato e che vadano ad effettuare cessioni di beni e prestazioni di servizi nel territorio statale per più di 50 milioni di euro. Si forma così una sorta di accordo sia per calcolare l’ammontare di quanto versare sia una compliance per evitare sanzioni.
E in Europa? Di recente è stato presentato un documento a proposito dal vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis a seguire quanto già discusso nel meeting di Ecofin di metà settembre a Tallin in Estonia con i 28 ministri delle finanze dei paesi europei. Alla fine, il principio è sempre lo stesso: evitare che le multinazionali evadano il fisco pagando pochissimi contributi nei paesi convenienti senza che i paesi dove effettivamente operano siano considerati.
Favorevoli sono Francia, Italia, Germania, Spagna, Austria, Grecia, Portogallo, Bulgaria, Romania e Slovenia; contrari paesi che invece accolgono le grandi multinazionali come Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro.
Ci sono tre proposte. La prima è l’equalisation tax che sfrutta come base imponibile il fatturato realizzato nel paese più che i profitti, il secondo è la tassa sui ricavi generati sulle forniture di servizi come le pubblicità online. La terza è quella di una trattenuta sulle transazioni effettuate online.
Come denunciato da un europarlamentare a Bruxelles, solamente in Italia, Google non ha versato qualcosa come 540 milioni di euro dal 2013 al 2015, con la cifra che sale a 5 miliardi se si considera l’intero continente. Facebook avrebbe fatto ancora “peggio” con solo lo 0.1% delle tasse pagate contro l’1% di Mountain View.
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