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Categories: GoogleSocial Media

Google: dirigenti assolti per il video del disabile vessato

Il caso Google Video sul filmato del disabile vessato termina con l’assoluzione dei tre dirigenti della divisione italiana di Mountain View per 6 mesi (per violazione della privacy). E meno male, aggiungiamo noi: se fosse stato confermato il primo grado allora avremmo fatto una figura davvero magra, noi italiani tutti. I tre dirigenti sono David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italy e attualmente senior vice presidente, George De Los Reyes, anche lui ex membro del cda di Google Italy, ma ora in pensione e Peter Fleischer, responsabile delle strategie per la privacy per l’Europa di Google. Confermata anche l’assoluzione (arrivata in primo grado) di Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l’Europa. Giulia Bongiorno, legale per i dirigenti Google: “Soddisfazione assoluta, ma nessuna sorpresa, perché l’accusa si basava sul nulla”.

Dieci giorni fa il sostituto pg di Milano, Laura Bertolè Viale motivava affermando che “Non solo la privacy del minore è stata violata, ma sono state impartite lezioni di crudeltà ai 5500 visitatori del video“: una frase altrettanto poco condivisibile della sentenza. Cosa era successo? Nel 2006 un video con un disabile maltrattato era stato richiamato all’attenzione pubblica e c’era chi chiedeva la condanna di Google ossia del contenitore del filmato. Il pg affermava: “Doveva essere effettuato un controllo preventivo, che si poteva fare ma non è stato portato in atto per motivi economici, per fini di lucro dato che il video era fonte di forte guadagno“. Giorgia Abeltino, Policy Manager di Google in Italia aveva commentato: “Come abbiamo sempre detto, ci sentiamo vicini al ragazzo, vittima di un atto di bullismo in quel video riprovevole. I bulli, responsabili per la violazione della sua privacy, sono già stati puniti. Confidiamo che nel processo d’appello verrà dimostrata l’innocenza dei nostri colleghi“.
 
Forte guadagno un video visto 5500 volte? Forse il sostituto pg non ha mai aperto il filmato di Gangnam Style e dato un’occhiata ai numeri che genera. Google era andato a sentenza in Italia per via del video con protagonista un disabile malmenato in una scuola nel 2010. Tre dirigenti della società regina in rete erano stati indicati come responsabili e la vicenda ha fatto rapidamente il giro del mondo in pochi minuti. L’opinione comune, peraltro perfettamente condivisibile, è che questo fatto costituisca un pericoloso precedente che potrebbe creare “Una grave minaccia per il web – commentava Google aggiungendo di voler ricorrere in appello visto che – i nostri colleghi non hanno niente a che fare con il video in questione“.
 
Il video non era certo prodotto da Google che si è limitata a ospitare e diffondere suo malgrado l’atto di sevizie nei confronti di un disabile. Non appena però ha ricevuto segnalazione della clip l’ha prontamente cancellato, in accordo con le normative europee. Ma la giustizia italiana nella persona del giudice Oscar Magi non ha voluto saperne puntando il dito contro il contenitore più ancora del contenuto. Una soluzione molto pericolosa perché tutti i grandi colossi del web (che sostengono la rete) sono strutturati come Google: mettono a disposizione le strutture e gli spazi, il resto è generato dagli stessi utenti. Un controllo in tempo reale è impossibile da ipotizzare, sono gli stessi visitatori che segnalano e indicano contenuti non idonei.
 
Il più emblematico commento estero sulla vicenda arrivava dal portale tecnologico Techcrunch che titolava l’articolo “Qualcuno vada spiegare a questo giudice italiano cos’è YouTube“. Ed è proprio questo il problema di fondo: di sicuro l’atto compiuto sul disabile è deprecabile, ma da qui a condannare Google ne passa. Di più: anche la frase sulla “crudeltà inflitta ai 5500 visitatori del video” sembra totalmente fuori luogo. È un po’ come se qualcuno scrivesse ingiurie sul muro di una persona che non c’entra niente e questa venisse condannata per diffamazione non avendo subito cancellato gli insulti con la vernice. Questione di responsabilità che – soprattutto nel caso del web – meriterebbero un altro atteggiamento.

Diego Barbera

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